Sunday, August 27, 2006

una Domenica con un missionario

Costa d’ Avorio 7 Febbraio 1999
(Una domenica con un missionario)

Appena sveglio mi guardo allo specchio: due pietose borse sotto gli occhi chiedono solo che torni a letto. Gli effetti di un mese di vita in missione sono ormai manifesti nel corpo e nello spirito, ma non posso e non voglio rinunciare a questa giornata.
“Oggi andiamo a celebrare la messa in un villaggio di montagna” mi dice Padre Luigi ”Viene anche suor Teresiña”.
Il villaggio di Dingbì sorge in una conca in mezzo a colline coperte di vegetazione lussureggiante. I tetti di lamiera ormai arrugginita segnano inesorabilmente l’architettura. Una serie di case in stile Habron parla di una fioritura ormai dimenticata. Gli Habron sono originari del Ghana e qui siamo a circa 15 chilometri dal confine.
Ci accoglie un turbine di polvere. Non è brezza, ma un vento gelido e poderoso che spazza il villaggio. Il pallido sole che ci ha accompagnato per strada parlava chiaro: non avrebbe avuto la forza di sovrastare il vento.
Scendendo dalla macchina Padre Luigi mi guarda e dice: ”Speriamo che nel villaggio non ci sia la morte”. Per una frazione di secondo, forse troppo lunga, il mio sguardo si perde nello sfondo del villaggio e la tonaca del padre sfoca in un mulinello di polvere. Penso ad un’epidemia che imperversa per il villaggio, ma è solo il modo di esprimersi un po’ crudo del padre: teme semplicemente che si celebrino dei funerali e quindi la nostra presenza sarebbe di troppo. Da quanto mi dice si tratta di una cerimonia particolare che, pur essendo un rituale cristiano, esula dal rito cattolico, va preparata con cura ed occorrono molti soldi per non deludere i partecipanti; spesso, nell’attesa che siano racimolati, le salme aspettano mesi per le esequie. Ospiti e parenti giungono anche dai villaggi vicini per mangiare e “festeggiare”.
Andiamo a salutare gli abitanti del villaggio. Entriamo in una casa e ci fanno accomodare in quelli che ai miei occhi sembrano veri e propri troni. Al solito padre Luigi è trattato come un’autorità. Viene subito informato che oggi, in effetti, si celebrano ben cinque funerali. Padre Luigi: ”Quasi quasi vado a celebrare la messa da un’altra parte, qui creiamo soltanto confusione”. Si riparte alla volta di Kuafò.
Il villaggio ricorda vagamente il Kenya degli altipiani. Poche case incastonate su uno sperone di pietra rossa con viuzze strettissime in cui padre Luigi s’insinua deciso con la R4. Parcheggiamo in una spianata ai margini del villaggio su cui sorge una piccola chiesa. Io, che delle chiese ho sempre considerato solo il lato artistico, credo sinceramente che questa semplicissima e piccolissima cappella sia la più bella e vera che ho mai visto. Gli abitanti sono felicissimi di vederci. Padre Luigi si prepara per la messa, celebrerà in una chiesa di fortuna costruita in fretta con legname poverissimo e il tetto di paglia. Padre Luigi mi ha spiegato che il numero di fedeli cresce in continuazione e la cappella è diventata troppo piccola. Ci sarebbe la volontà di costruire una nuova chiesa, ma ovviamente mancano le risorse.
Io, che mi scopro ospite gradito, gironzolo un po' per il villaggio, ma poi inforco un sentiero e risalgo la collina per circa un’ora. Finalmente solo. Non è facile restare soli, i bambini sono ovunque e ti seguono affascinati e curiosi. Non se ne vedono molti di bianchi da queste parti.“Forse è un bene” continuo a ripetermi.
Il sentiero non è più largo dei miei piedi. Scavalco alberi caduti e mi arrampico. Dopo pochi metri la foresta si chiude sia davanti sia dietro di me. Non ho mai visto una vegetazione tanto rigogliosa, ma ho ancora nelle orecchie le parole di Padre Luigi: ” Qui la foresta non esiste più. Ora che sono finiti gli alberi più grandi le ditte europee tagliano anche i piccoli. Tanto ci fanno i parquettes.”
Incrocio delle persone che vanno al villaggio con delle ceste sul capo. Credo di scorgere un lampo di perplessità e un cenno di preoccupazione nei loro sguardi quando si accorgono della mia presenza. Non devo essere un incontro prevedibile. Mi affretto a salutare e i loro volti s’illuminano di sorrisi radiosi e inequivocabili.
Traccio delle frecce sul sentiero con il tacco degli stivali. Non è una stupidaggine, è solo la necessità di non perdermi in questo dedalo di sentieri.
Decido di tornare indietro quando ormai ho superato la cresta della collina e la foresta non dà spazio ai panorami.
La messa non è ancora terminata. Sto un po' sotto il sole e quando ancora non ho deciso cosa fare, il rappresentante del villaggio mi conduce a casa sua. Mi ritrovo a sedere in una stanzetta, ospite perplesso e affascinato. Il padrone di casa sceglie un nastro di musica africana, lo inserisce nel riproduttore e mi lascia. In cuor mio sorrido per la situazione. Cosa ci faccio adesso qui? (Seduto per chissà quanto tempo in una stanza che guardo con colpevole curiosità). Con il pretesto che non sta bene fumare in casa altrui, esco. Mi accendo una sigaretta sotto la tettoia e do spettacolo con la mia sola presenza. I bambini mi osservano, studiano e toccano come al solito. Nel frattempo si consuma l’agonia di un pollo tra le mani di un bambino. “Almeno qualcuno oggi mangerà carne” penso.
La messa finisce e l’abitazione è offerta a padre Luigi per le udienze. C’è una sedia anche per me, ma credo di essere di troppo. Padre Luigi si accorge del mio imbarazzo: ” Va dove vuoi, fotografa, va a sentire suor Teresiña che parla alle donne del villaggio”. Vado.
La suora è davanti all’ altare nella chiesa provvisoria. Illustra ad un’assemblea di donne e bambini, con il suo francese un po' titubante, le proprietà medicinali d’alcune piante locali. Dietro di lei un ragazzo traduce in Kulangò. (la lingua del posto).
Terminata la riunione, la suora ha la bontà di spiegare anche a me alcuni aspetti delle abitudini alimentari locali. La frutta ad esempio non fa parte dell’alimentazione. Per me è una rivelazione sconvolgente: l’unico prodotto che per quantità e qualità abbonda non viene consumato! Una serie di credenze popolari ne inibisce il consumo, ma secondo la suora si tratta invece d’espedienti per ricavare soldi dalla vendita della frutta e acquistare i prodotti in scatola. Una sorta di consumismo nascente. I bambini non mangiano neppure le uova. Chi le mangia diventa ladro!

Vagabondo ancora un po' per il villaggio. Osservo la preparazione dell’olio di palma, il caffè steso ad asciugare, le capre e i maiali che ovunque gironzolano indisturbati e i fiori selvatici di cui la suora mi ha descritto le proprietà.
Ci sono 40 gradi all’ombra ed ho fame. Io, che sono qui solo da un mese e faccio ben poco, comincio ad essere stanco, Padre Luigi è qui da 40 anni e oggi non accenna a lasciare la sua gente neppure per la pausa pranzo.
Stamattina si scherzava sul fatto che non avrei mangiato spaghetti. “Ci mancherebbe altro!” dicevo, ma speravo che almeno una bibita in bottiglia saltasse fuori, invece c’è solo acqua presa allo stagno. Portarsi dietro la propria borraccia in casa altrui non è certo educato. Anche la suora è preoccupata per l’aspetto igienico. Una sua consorella è preda continua di febbri tifoidi. Quando controlla il piatto dove deve mangiare è puro terrore quello che traspare dal suo viso. Prende la brocca dell'acqua e sciacqua il piatto senza tante formalità in mezzo alla folla che ci osserva. Io, forse un po' bigotto, il mio di piatto evito di guardarlo. Nel bicchiere mi viene versato vino di palma. Azzardo qualche osservazione scherzosa sull'acqua stagnante e il padre, che in fatto di malattie dovrebbe essere l’ultimo a parlare (le ha tutte), quasi si offende. “Va bene” sdrammatizzo senza convinzione “bevo anche l’acqua dello stagno, e crepi l’ameba!”. Ecco che inaspettatamente spunta una bottiglia di coca. Quasi non la bevo per ripicca. Contro chi non lo so, forse me stesso. Per pranzo abbiamo: ignam lesso e riso con sugo di pollo. E’ il pollo che ho visto spennare questa mattina. Mi passa immediatamente la fame e non sto neppure a domandarmi Perché. Diverse risposte si affollano nei piatti, nei bicchieri, nell'aria e soprattutto nella coscienza.
Mentre padre Luigi continua la sua visita pastorale io mi trovo a combattere contro la sonnolenza del dopo pranzo. Alzo gli occhi e padre Luigi è davanti a me. “Andiamo via” Mi dice. Ci spostiamo per gli ultimi saluti. Tutto il villaggio si stringe intorno a noi, ma non mi sembra ci sia aria di partenza. Padre Luigi distribuisce ancora medicine e s’intrattiene con tutti. Si gira verso di me e mi dice serafico: ”Quando non vogliono lasciarti partire, trovano tutte le scuse immaginabili”. Io intanto, con l’aiuto della suora, saluto il nostro cicerone e cerco di esternare tutta la mia gratitudine per l’ospitalità che il villaggio ha dimostrato soprattutto nei confronti di un intruso come me. Saliamo in macchina, ma dopo neppure cento metri sono vittima di una terribile reprimenda del padre, a quanto pare, non ho salutato correttamente. Che figura, eppure credevo di aver rispettato egregiamente l’etichetta. Nel frattempo, dal sedile posteriore suor Teresiña mi porge 1000 Franchi C.f.a., ma non riesco a capire a che titolo! Ci vogliono tutte le spiegazioni e la pazienza di padre Luigi per farmi metabolizzare che il villaggio ha donato a me personalmente 1000 franchi C.f.a., racimolati non so come, come segno di ringraziamento per averlo onorato con la mia visita. Questi soldi mi bruciano in mano, mi sforzo disperatamente di far collimare la mia morale, i concetti e i preconcetti, con le usanze locali. Trovo una soluzione che per quanto patetica è pur sempre un artificio d’alta finanza: darò altri 1000 C.f.a. a Padre Luigi e questi li terrò per ricordo. Per strada facciamo una deviazione, qualcuno ha comunicato a padre Luigi che c’è da portare l’unzione dei malati al villaggio di Damè. Sono stanco e provato, lo ammetto. Vorrei solo tornare alla missione e lavarmi le mani. Non me la sento di stringerne ancora altre, ma sono qui… accetto quello che viene. Ci fermiamo sotto un albero all’ingresso del villaggio. Saluto tutti quelli che i miei occhi incontrano. E’ giusto che sia così. Padre Luigi dopo i saluti si avvia scortato da tutto il villaggio e io lo seguo. Davanti alla casa dell'ammalata mi fermo. Un po' per rispetto, un po' per indecisione. Non so se è bene o male entrare in casa, nel dubbio aspetterò fuori. Premo con un gesto nervoso gli occhiali sul naso e la tonaca di padre Luigi diventa più scura sotto la tettoia, ma la sua nuca quasi calva risalta. E’ fermo sulla soglia, invece di entrare si gira. “Avrà dimenticato qualcosa?” penso. I suoi occhi cercano i miei: ”Vieni… se vuoi, così ti rendi conto, vieni… così capisci come vive la gente”. Non dico nulla. Lo seguo.
Entro per ultimo in quella che non è già più una stanza, ma un luogo di sepoltura. Di lei, di quella creatura che soffre, che non vive più, non sono rimasti che gli occhi. Pupille lucide, sbigottite, malinconiche. Occhi che capiscono di essere già sepolti, ma nei quali non riesco a leggere: ”Perché?”.
L’atmosfera è irrespirabile, soffoca la vista, viene meno l’istinto di osservare. Ma il letto è lì, il tavolo con le cose affastellate e indistinguibili, le medicine distrutte dal disordine, dalla polvere, dal calore e dai vermi dell'impotenza e dell'ignoranza. Il letto è lì. Addossato alle pareti che grondano gli umori dello sforzo assurdo di essere quello che sono: pareti costrette ad essere un ambiente malsano dove c’era posto solo per l’aria aperta. Eppure la luce che fuori sa di sano s’insinua tra le crepe e le fessure, tra la muratura marcia e le lamiere arroventate del tetto. Il letto è lì, con quegli occhi che vogliono accogliere Padre Luigi, che forse aspettavano solo Padre Luigi. Le membra sono indistinguibili, è rimasto veramente poco in mezzo a quel letto troppo grande, a quelle coperte rassegnate. Ma una cosa è uscita quando siamo entrati noi: la solitudine. Di questo sono certo. Insieme al padre forse è entrata anche qualche altra cosa…che non conosco… che temo di riconoscere dopo aver smesso di cercarla. Non ho il tempo di capirlo, ma non sono più soltanto spettatore. Sono parte di quest’abisso che è la realtà. Ora, in un momento ben preciso, nell’attimo in cui padre Luigi impartisce l’estrema unzione, capisco e accetto la sofferenza. Accetto il bisogno di Dio. Non è un atto di fede, non credo che lo sarà mai. E’ solo una speranza. E’ l’accettazione di un bisogno che oggi non è il mio ma di questi occhi che muoiono in un letto di miseria. Padre Luigi abbraccia la donna, e se mai c’è stato qualcosa di veramente sincero è quest’abbraccio. Non c’è enfasi nei suoi gesti né nei miei pensieri. La suora si avvicina anch'essa al letto ma non è lo stesso abbraccio. Mi chino vicino alla donna e le chiedo perdono, chiedo perdono alla morte per non averla mai capita.
Esco dalla camera in un bagno di sudore cui il caldo ha contribuito ben poco. Il padre mi chiama per andare a visitare un’altra ammalata all’estremità opposta del villaggio. Finalmente mi riconosco scoprendomi a pensare: ”Padre, guarda che ho capito! Non c’è bisogno d'insistere”. Sono tentato di dirglielo, ma intanto siamo arrivati. Un cumulo di macerie di fango e paglia, un muro che stenta a stare in piedi, tizzoni accesi e cenere, volute di fumo tra pentole annerite, lamiere, capre e bambini. Una donna senza età giace su un piccolo sedile di legno. Non è più una donna, è solo quel che misere ossa riescono a sostenere. E’ solo pelle attaccata a se stessa. I seni pendono neppure più sterili fino alla vita. Il cranio calvo è solo un teschio marrone. Padre Luigi le solleva il mento e le guarda il volto. Le solleva una palpebra e mormora irritato qualcosa che non capisco ma di cui percepisco il senso. L’occhio non c’è più, è solo un’orrida cosa pesta e suppurante in cui quel poco di bianco che è rimasto non significa più nulla. Padre Luigi estrae dalla borsa uno stetoscopio e uno sfigmomanometro. Misura la pressione, il sospetto che fosse altissima è confermato, e somministra delle pastiglie. Cerco di osservare la scena con un po' di distacco e mi rendo conto che è questa la foto che non farò mai. Mi dispiace, perché credo sia solo per falso pudore. Poi capisco che per chi l’avrebbe guardata, sarebbe stato troppo facile non riflettere. Questa è la foto: il non averla mai fatta, l’averla dentro e provare a capirla.
Ci allontaniamo per permettere al padre di confessare la donna.
Quando torna il padre ci comunica che se la donna prenderà regolarmente le pillole potrà sopravvivere, la pressione è già tornata a valori tollerabili.
Un ragazzo parla con suor Teresiña, mi sembra stravolto, credo che abbia bevuto. Mi guarda, si avvicina e suor Teresiña ci presenta. Strette di mano e tre baci come vuole l’usanza. Mi vuole donare dei fiori e mi conduce a coglierli. Non penso più che abbia bevuto, ma è strano ugualmente. “Tu ami questo posto” mi dice “ti ho visto andare da solo sulla montagna”. Sono frastornato, confuso. Suor Teresiña mi chiama per mostrarmi la nuova chiesa del villaggio. Lungo la strada mi parla di un ragazzo malato di cancro al setto nasale: ”Puzzava già”. Sto per domandare: “Ed ora come sta? Dov’è?” ma la suora si ferma a salutare un giovane, si gira verso di me e mi dice” ora è guarito, è lui”. Ci stringiamo la mano mentre Mon Père ci passa davanti con la R4 strombazzando, fa finta di lasciarci a piedi. “Anche i missionari si divertono come possono!” esclamo e salendo in macchina lo rimprovero: “Va bene che mi piace l’Africa, e resterei volentieri in questo villaggio, ma te lo devo mettere per iscritto che voglio tornare da mia moglie?”
La strada del ritorno non è quella che abbiamo fatto all’andata, Mon Père procede ad un’andatura da “Parigi Dakar” e si dilunga in dettagliate descrizioni dello stato in cui la pista versa nel periodo delle piogge. Suor Teresiña e Mon Père mi mostrano il punto esatto in cui sono rimasti intrappolati nel fango. Ora rischiamo di lasciarci la coppa dell’olio sprofondando in una voragine “Forse hai toccato “ gli dico. “ Sotto c’è la lamiera” mi risponde con un’aria di complicità.
Arrivati alla missione consegno subito i 1000 cfa a Mon Père, ma non vuole prenderli. ”Cerca di capire” lo imploro, riesco a convincerlo solo ammettendo che gli sto dando un biglietto qualunque e terrò come ricordo quello che mi hanno regalato. Mon Père ha voglia di andare a dormire, ma non so perché, ci ripensa. La missione nel frattempo si riempie di gente. “se sapevo che venivano a rompermi i coglioni andavo a dormire”. Evidentemente è gente che non ha bisogno di nulla.

E’ stato solo un giorno qualunque insieme con un missionario. L’ultimo dei missionari, è stato definito da molti. Io non ne ho conosciuti altri sul campo, ma sono felice di aver conosciuto un uomo.

0 Comments:

Post a Comment

<< Home